Lettera
ai Cappellani Militari
Cari Confratelli nel Sacerdozio: “Pace a voi!”
1. Con stima e affetto rivolgo a ciascuno
il saluto e l’augurio di Gesù Risorto.
Da tempo desideravo scrivere a voi che siete i primi e indispensabili
collaboratori del Vescovo, nonché fratelli nella straordinaria
grazia della vocazione sacerdotale e nella vita che ne consegue.
Non poche sono le occasioni per incontrarvi durante l’anno:
più di quanto immaginassi all’inizio, pensandovi sparsi
per tutta l’estensione della nostra Diocesi, in Italia e all’estero.
L’ amministrazione del sacramento della Cresima, del Battesimo,
le celebrazioni della Pasqua nelle Zone Pastorali, la Santa Messa
Crismale, la settimana di Aggiornamento teologico-pastorale, gli
Esercizi Spirituali annuali, le Visite pastorali alle realtà
militari, gli incontri individuali e altre forme e circostanze,
sono momenti preziosi e desiderati per incontrarci e sentirci vicini,
anzi “insieme”, non solo nella medesima missione pastorale,
ma, ancor prima, nello stesso destino di grazia: “Ne costituì
dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”
(Mc 3, 14).
Le stesse Relazioni che mi avete inviato sono un modo per comunicare
tra noi. Con questo spirito le ho lette attentamente e vi ringrazio:
mi spiace solo di non riuscire a rispondervi personalmente come
avrei desiderio.
Comunque, nonostante la molteplicità delle occasioni, vorrei
potervi manifestare ancora di più la mia vicinanza di Padre
e Pastore!
La Lettera che vi scrivo ha questo scopo. E’ trascorso più
di un anno da quando il Santo Padre mi ha affidato la Chiesa dell’Ordinariato
Militare. Ed io, con trepidazione e fiducia, ho accettato la manifestazione
della volontà di Dio.
Ora, in un clima di famiglia – il Presbiterio –, sento
il bisogno di aprirvi il cuore e comunicarvi con semplicità
alcuni sentimenti e riflessioni perché, conoscendo meglio
l’anima del Vescovo, possiamo vivere il nostro Sacerdozio
in spirito di accresciuta comunione. Risuonano sullo sfondo le parole
del grande Vescovo e martire, Ignazio di Antiochia: “E’
bene che camminiate in accordo con il pensiero del Vescovo. Il vostro
collegio dei presbiteri (...) è strettamente unito al Vescovo
come le corde alla cetra” (Lettera ai cristiani di Efeso IV).
2. Il primo sentimento che desidero condividere è la gratitudine
a Dio per la nostra Chiesa Particolare. Essa, come ho scritto nella
Lettera Pastorale (cfr Camminate secondo lo Spirito, 1-2) è
un mondo ricco di bontà e di bene; che stima i suoi Sacerdoti
e ne apprezza la presenza. E’ un “campo” particolarmente
fecondo per la pastorale dei giovani. Ho spesso constatato come
essi si rivolgano a voi con semplicità e fiducia, certi di
trovare un cuore di padre. Così, a qualunque livello e in
ogni ambiente, la presenza e l’operato dei Cappellani trova
globale considerazione, apprezzamento e disponibilità.
La Divina Provvidenza ci dona questa grande opportunità
pastorale e la Chiesa, attraverso la nostra sacerdotale vicinanza,
esprime la sua materna sollecitudine per tanti uomini che si dedicano
al loro dovere di sicurezza e di ordine con competenza, semplicità
e dedizione fino al sacrificio. Sono aspetti, questi, che noi Sacerdoti
possiamo cogliere e testimoniare di persona con sincera ammirazione.
Così pure siamo testimoni di come le loro famiglie, che fanno
parte della nostra Diocesi, condividono la missione impegnativa
dei loro cari; e conosciamo quanto il valore della famiglia - nonostante
difficoltà e crisi – sia sentito vivo e centrale. In
questa direzione, dobbiamo intensificare la pastorale specifica.
La nostra gratitudine al Signore per la grazia che ci dona di
poterci spendere in questo ampio campo, si esprime ogni giorno nella
Celebrazione Eucaristica, l’Azione-di- grazie per eccellenza.
3. Il secondo sentimento è per voi, cari Cappellani Militari.
Senza illusione o presunzione, mi sembra di conoscervi “da
tempo”. L’esperienza insegna che spesso, nei rapporti,
l’intensità del cuore supplisce e integra la brevità
del tempo. Penso ciascuno al proprio posto di lavoro dove l’obbedienza
lo ha inviato. Tutti siamo inviati da un’obbedienza più
alta: in questa prospettiva, sappiamo che nella vita sacerdotale
non è il “che cosa” o il “dove” che
innanzitutto conta, ma il “perché” e il “come”.
A ciascuno esprimo la mia stima e la mia gratitudine.
Come nella vita di tutti, anche nella nostra non mancano difficoltà,
a volte aridità e incomprensioni. Esse sono di diversa natura
e provenienza: ci sono prove che si possono sciogliere e superare,
altre che si devono solo portare. Quelle che non derivano da noi
stessi, dal nostro mondo interiore o dal nostro carattere, sono
le sofferenze che l’apostolo Paolo vive in prima persona nel
suo ministero: le vive come segno della necessaria partecipazione
alla croce di Cristo e
come modo efficace per generare le anime a Dio. Egli sa bene che
non si genera la vita senza dolore. Anche noi lo sappiamo e non
dobbiamo dimenticarlo strada facendo. Questa certezza di fede, che
si conferma e ravviva guardando al Crocifisso – che deve essere
sempre ben visibile nelle nostre chiese e nei nostri alloggi –
ci dona la capacità di resistere con fortezza e di guardare
avanti con serenità e fiducia.
4. Desidero ora aprirvi il cuore lasciandomi sollecitare dall’incontro
delle donne al sepolcro di Cristo, così come i quattro Vangeli
lo narrano. Al di là delle questioni esegetiche, i racconti
si arricchiscono a vicenda. In quel misterioso e pur luminoso contesto,
sgorgano le parole che vorrei fossero come il cuore di questa lettera:
“Non abbiate paura (…) Dite ai suoi discepoli e a Pietro
che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (Mc
16, 6-7).
Esse sono una missione per le donne: le ripetono agli Apostoli e
le ripetono a noi oggi. Risuonano rassicuranti nella mia anima:
lasciate che le ripeta io stesso a ciascuno di voi.
5. Sole, alle primissime luci dell’alba, le donne si recano
al sepolcro di Gesù. Non è difficile intuirne i sentimenti:
il loro cuore è come una tomba chiusa dal peso di un’immensa
pietra. Sembra che il sepolcro di Cristo si prolunghi nelle loro
anime: se da un lato corrono ansiose per raggiungere in fretta la
meta, dall’altro si trascinano sotto l’invisibile peso
della pietra tombale che non vorrebbero mai più rivedere.
Le guida l’intimo e irrefrenabile desiderio di stare ancora
vicini a ciò che rimane del Maestro; che si può vedere
e toccare; che dà la sensazione della sua presenza. Ma l’anima
è invasa da un acuto dolore e da una sconfinata tristezza,
conseguenza della morte di Gesù, ma anche della crudele violenza
con cui l’Agnello senza macchia è stato condotto al
“macello”.
L’assenza di Gesù provoca in loro smarrimento e vuoto:
da quell’abisso sale l’antica e universale domanda:
chi sono io? che senso ha il mio vivere? che sarà di me?
Incontrando un giorno non lontano Gesù, Maria di Magdala
– oppressa da “sette demoni” (cfr Lc 8, 2) –
aveva sentito la risposta. Nella verità delle parole del
Maestro aveva scoperto la sua libertà. Nel suo sguardo aveva
sentito la stima e l’amore di Dio: “Tu sei prezioso
ai miei occhi, sei degno della mia stima e io ti amo” (Sl
43). E a lui aveva affidato se stessa, la propria vita.
Ora, di fronte al sepolcro, Maria è ferita da un profondo
dolore, ma anche da una acuta delusione: delusione per un mondo
infranto, un sogno finito. E, insieme, è trafitta da una
struggente nostalgia per un tempo – troppo breve – di
speranza e di vita.
6. Anche i discepoli di Cristo – di ieri e di oggi –
possono essere ghermiti e attraversati da questi pensieri ed avere
l’anima scossa dagli stessi sentimenti. Ognuno, come Maria,
deve percorrere la via della purificazione della fede e dell’amore.
La fede è luce, ma oscura; è oscurità, ma luminosa.
Anche grandi Santi hanno conosciuto la “notte”.
Noi Sacerdoti non siamo esenti: ognuno, secondo il proprio cammino
e il disegno di Dio, può avvertire la prova di Maria. A volte
è l’esperienza più dolorosa della nostra povertà,
della fragilità personale: toccare con mano, forse con umiliazione,
lo scarto tra l’amore di Dio, la santità del Sacerdozio
ricevuto, e la misura della nostra risposta.
Altre volte, la prova può nascere dalle difficoltà
del ministero pastorale. Ci sentiamo come il seminatore generoso
della parabola (cfr Mc 4) che sparge il seme del Vangelo senza risparmiarsi
e non vede altro che pietre e spine. Penso alla fedeltà della
vostra quotidiana presenza là dove la Chiesa vi manda: una
presenza che non è solo un “esserci”, ma relazionarsi
con tutti, offrire vicinanza e ascolto, disponibilità visibile
del proprio servizio. Penso alla fedele celebrazione della Santa
Messa a volte con poche presenze – qualche volta “soli”
- ; alla fatica di conquistare giorno dopo giorno la fiducia di
coloro che vi sono affidati; alla tentazione di assuefarvi alle
situazioni e dare tutto per scontato; allo sforzo per ricominciare
ogni giorno senza arrendervi; alla prontezza per non perdere nessuna
occasione, nessun piccolissimo appiglio per indicare alle anime
il volto di Cristo; alla continua fantasia per inventare e tentare
nuove vie e iniziative d’ incontro con le persone; alla vostra
sofferenza di pastori nel registrare a volte rifiuti e incomprensioni.
7. Al sepolcro, un nuovo dolore attende le donne: la tomba è
aperta e vuota. Il corpo esangue di Gesù, ultima reliquia
di un mondo nuovo e appena intravisto, è scomparso. In fondo,
si accontentavano di poco: poter rimanere alcuni attimi vicine a
ciò che rimaneva di lui e prestargli l’estremo tributo
di pietà ungendolo con i rituali aromi. Ora, il senso dell’abbandono
è completo. Ma il Risorto è vicino!
Consideriamo ora l’incontro con Maria di Magdala: certamente
Giovanni (cap 20) trascrive quanto la donna ha raccontato innumerevoli
volte. E’ la storia di un incontro che esprime, ma anche travalica,
l’esperienza singola, lasciando trasparire il dinamismo di
ogni rapporto con il Signore: sia all’inizio della fede come
nella sua crescita, sia nel momento della sofferenza come della
tentazione.
Colpisce che Maria non riconosca subito il Signore. Anche i due
discepoli sulla via di Emmaus non lo riconoscono (cfr Lc 24). A
parte altre considerazioni, Maria è talmente chiusa nel suo
dolore da non vedere altro: è come “fuori” dalla
realtà. E’ così presa dall’assenza del
Maestro da non coglierne la presenza.
Può accadere anche a noi: ostacoli, delusioni, progetti,
aspirazioni personali, possono diventare talmente ingombranti da
possederci e renderci ciechi di fronte alla vicinanza di Cristo.
Quando l’uomo si lascia prendere troppo dai suoi problemi
e dai suoi calcoli, li assolutizza e si allontana dalla realtà:
entra in un mondo solo suo. E lì si chiude. Le anime sagge
ci insegnano a saper sorridere di noi stessi.
8. Ma Gesù risorto non lascia Maria sola con se stessa, con
il suo dolore che rischia di estraniarla per sempre. Rompe questo
isolamento e la interroga: “Donna, perché piangi? Chi
cerchi?”.
Come sulla via di Emmaus, Cristo domanda, provoca il dialogo. La
logica è la stessa: vuole che l’uomo prenda coscienza
chiara dei suoi stati d’animo; li faccia emergere dal profondo
dell’anima; li guardi in volto e li chiami per nome; ne colga
i motivi a volte nascosti. Ciò è necessario sia per
il sentimento della gioia che per quello della sofferenza, del disagio
interiore come del malumore: perché sono così triste,
insofferente, insoddisfatto?
Maria, dovendo rispondere allo “sconosciuto”, è
costretta a dire con chiarezza la ragione più vera e profonda
del suo dolore: dicendola a lui, la dice innanzitutto a se stessa
e ne vede la portata. Nello stesso tempo, dichiara la sua volontà
di coinvolgimento, la sua disponibilità a fare tutto ciò
che è possibile per affrontare e vivere in modo costruttivo
la situazione: “Se l’hai portato via tu, dimmi dove
lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Era tutto ciò
che Maria poteva fare in quel momento: e l’avrebbe fatto con
slancio. Quanto è importante per tutti, anche per noi! Nelle
situazioni difficili o dolorose, innanzitutto fare tutto ciò
che è possibile in concreto, senza attenderci la perfezione
impossibile delle cose umane.
9. Solo a questo punto il Risorto irrompe nel suo cuore chiamandola
per nome: “Maria”. E gli occhi di lei si aprono: “Maestro!”.
In questo istante – lungo quanto il nome – si capovolge
l’universo: la tomba dell’anima si spalanca, la tenebra
diventa luce, Maria risorge alla vita. Ella vede il volto del Risorto
e naufraga in lui.
Non è questo, forse, il dinamismo della fede? La fede è
sempre un incontro, un riconoscersi reciproco, un dirsi di “si”
l’un l’altro. E’ chiamarsi per nome. Ognuno di
noi è stato chiamato per nome: dimenticare questa avvincente
realtà, viverla in modo scontato, significa entrare nella
“tomba”, così come Maria di Magdala si era segregata
sotto la grande pietra del suo tormento.
Dall’eternità Dio ci conosce per nome e ci ha chiamati
alla vita. I nostri genitori hanno voluto con amore dei figli, ma
non ci hanno scelto. Dio sì! Ci ha chiamati poi alla fede
e al Sacerdozio. Perché proprio noi? Gesù, sul monte,
ne scelse dodici e l’evangelista ne indica il nome uno per
uno (cfr Mc 3, 13-19). Non sceglie in massa o a caso ma personalmente,
ognuno con il proprio volto, con una storia irripetibile, un progetto
particolare. Con ciascuno di noi vuol fare qualcosa di unico per
il bene di tutti. Ci chiama per nome nel suo Corpo che è
la Chiesa. L’obbedienza alla Chiesa è la risposta all’appello
di Cristo: come Maria, risponde con slancio di fede e d’amore:
“Maestro!”. Nella Chiesa siamo chiamati alla fraternità
che si fonda su Cristo che ci ha redenti, ci ha resi figli dello
stesso Padre e, noi Sacerdoti, membri dell’unico Presbiterio.
La fraternità sacerdotale è una chiamata precisa e
ineludibile nonostante le sensibilità diverse: è un
criterio certo e necessario della nostra radicale risposta a Cristo.
Ancora, ognuno di noi è chiamato nella sua vita di preghiera.
Come Sacerdoti, sappiamo che la “vita di preghiera”
non si esaurisce nelle “preghiere” a cui siamo per altro
tenuti. La meditazione della Parola di Dio, la Liturgia delle Ore,
il santo Rosario, la visita al SS. Sacramento, sono espressioni
e momenti necessari e vitali di quella vita-di-preghiera che è
un costante, consapevole ed esplicito riferimento a Cristo vivo
e palpitante, vicino a noi come a Maria presso il sepolcro vuoto.
Ciò significa, fra l’altro, considerare le vicende
liete e tristi, personali e comunitarie, “sub lumine aeternitatis”,
come insegnano i Maestri dello spirito: cioè nella luce di
Cristo, con i suoi occhi, nella logica delle Beatitudini e della
Pasqua di morte e risurrezione.
Soprattutto, ogni giorno il Signore ci chiama per nome nella Celebrazione
Eucaristica, luogo sommo dell’incontro. Lì, Cristo
non solo pronuncia il nostro nome con incomparabile predilezione,
ma – a differenza di Maria – si consegna a noi, alle
nostre mani consacrate. Ci chiama ad agire “in persona Christi”!
Chiede di essere ospitato nella dimora della nostra anima per poterci
lui stesso ospitare nel suo ineffabile abbraccio. Così come
Maria va a visitare il corpo del Signore e si trova visitata da
lui: lo chiama con la voce del cuore e si sente chiamata; lo cerca
con struggente nostalgia e si scopre cercata.
10. Il dinamismo della fede non è concluso. Matteo racconta
che le donne, “avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono”
(Mt 28, 9). Anche Maria, nel vangelo di Giovanni, si slancia verso
il Signore, ma l’evangelista riporta una particolare reazione
di Gesù: “Non mi trattenere”.
Come non pensare alla richiesta spontanea e appassionata di Pietro
sul Tabor davanti a Cristo trasfigurato? Il gaudio e la beatitudine
erano tali da chiedere di “fermare” per sempre la bellezza
sublime di quel momento: “Maestro, è bello per noi
stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e
una per Elia” (Lc 9, 33). La risposta di Gesù non è
stata a parole, ma con il repentino cambio di situazione: “Mentre
parlava così, venne una nube e li avvolse” (Lc 9, 34).
Nei due episodi, pur nella diversità dei contesti e dei
messaggi, vi è un elemento comune: il desiderio dell’uomo
di fissare per sempre la bellezza e la felicità; di “fermare”
il tempo nella sublimità raggiunta; di “restare”
davanti alla gloria di Dio e respirare la sua luce. Ma se questo
è il comprensibile e irrefrenabile anelito dell’uomo,
il suo essere pellegrino della fede gli impedisce di fermarsi e
gli chiede di continuare il cammino fino a quando, superato il tempo,
entrerà in Cielo.
* Così è anche per noi. In Gesù, Dio è
venuto incontro all’uomo, si è fatto disponibile; ma
l’uomo non può disporre delle manifestazioni di Dio.
Non possiamo fissare i momenti in cui, nella vita spirituale, egli
lascia intravedere il suo volto e noi “tocchiamo il cielo”.
Solo lui decide i tempi e i modi. Ci chiede di crescere in una fede
adulta che sa vederlo e incontrarlo non solo nei momenti desiderati
di luce e di consolazione, ma anche in quelli temuti di oscurità
e di croce. Credendo che tutto è grazia perché egli
è sempre presente, anche quando è dolorosamente nascosto:
“Veramente tu sei un Dio nascosto” (Is 45, 15).
* Per noi Sacerdoti, poi, si aggiunge l’immeritata vocazione
di essere segno sacramentale di Gesù, Buon Pastore. Ciò
esige la libertà e l’ascesi di ripetere ogni giorno
il “sì” definitivo pronunciato davanti a Dio
e alla Chiesa nel giorno della sacra Ordinazione. Prostrati sul
pavimento, quasi uno con esso, eravamo consapevoli che la potenza
dello Spirito stava per compiere in noi qualcosa di straordinariamente
grande, di unico, di infinitamente superiore alle nostre capacità
e meriti. Eravamo coscienti di questo; a questo ci eravamo preparati
negli anni del Seminario; questo volevamo con tutto noi stessi.
Ma altresì eravamo consapevoli delle conseguenze, della messa
in gioco di tutta la nostra libertà, della vita, di ogni
attimo e respiro. Tutto di noi stava per ricevere il sigillo a fuoco
dello Spirito: da quel momento più nulla di noi – intelligenza
e cuore, corpo e anima, tempo – sarebbe stato solo “nostro”;
nulla sarebbe “uscito” da quel marchio divino. Tutto
avrebbe portato l’impronta indelebile del Buon Pastore, del
suo volto, del suo quotidiano dare la vita per le anime. Era il
nostro destino: per sempre! Eravamo coscienti di questo e, negli
anni, tale consapevolezza si è confermata e arricchita.
In questa luce, non ci devono legare né le delusioni pastorali
né i successi: tutto è grazia nella libertà
dello spirito, perché Dio è sempre più grande.
Non dobbiamo dimenticare di essere mendicanti di Infinito, viandanti
verso il Cielo, fatti per la vita eterna. Quando il fine ultimo
del nostro essere si offusca, subentrano altre prospettive, ne conseguono
preoccupazioni inutili, attaccamenti troppo umani, insoddisfazioni
sorde che possono condurre lontano.
11. L’episodio si avvia alla conclusione e, in un certo senso,
al suo culmine. Nei quattro Vangeli, seppure in modi diversi, si
giunge al medesimo messaggio: alle donne l’angelo non solo
annunzia la risurrezione, ma affida un mandato: “Non abbiate
paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’
risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto.
Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede
in Galilea. Là lo vedrete” (Mc 16, 6-7).
Nel racconto di Marco, si legge che le donne fuggirono spaventate
e si guardarono bene dal parlare: “non dissero niente a nessuno,
perché avevano paura” (Mc 16, 8). Maria di Magdala,
invece, raccontò quanto aveva visto sfidando l’incredulità
dei discepoli.
Questo lieto annunzio Maria lo ripete anche a noi, carissimi Sacerdoti.
Quante volte, nella mia esperienza di Sacerdote e di Vescovo, ho
toccato la verità di queste parole! Anche in questo primo
anno di ministero nella nostra Chiesa, innumerevoli volte ho visto
che il Signore ci precede in Galilea. Ognuno ha la sua Galilea,
la situazione pastorale che il Vescovo gli ha affidato. Perché
il Signore si lasci vedere, è essenziale che la Galilea non
la scegliamo noi, ma l’accogliamo come un dono: anche quando
si presenta particolarmente difficile.
Nonostante la diversità dei compiti, dei luoghi e delle forme
di pastorale, dobbiamo ricordare che la Galilea dove il Risorto
ci precede e vuole incontrarci è fatta di anime. E’
questo il luogo dove il Signore ci previene con la potenza della
sua grazia. Solo questo! Molte volte restiamo sorpresi incontrando
tesori di bontà, di pulizia morale, di eroismo semplice,
in situazioni che sembrerebbero lontane o impossibili. E invece
lo Spirito del Risorto, attraverso vie misteriose, ha lavorato nella
profondità dei cuori, ha suscitato pensieri alti, ha sostenuto
sforzi intrepidi che ci lasciano sconcertati e ci fanno cadere in
ginocchio per adorare il Signore ricco di misericordia. Penso alla
fedeltà coniugale, all’onestà nel lavoro, al
superamento dei rancori fino al perdono delle offese, alla faticosa
educazione dei figli, a situazioni di sofferenza fisica o morale
portate con ammirevole serenità e forza, alla quotidiana
cura dei malati e degli anziani, alla solidarietà spicciola
così diffusa e silenziosa, alla preghiera personale, alla
testimonianza cristiana fino a rischio della propria vita…
Anche all’estero, nelle missioni di pace, si scoprono tesori
di bontà, di religiosità, di fede sopravvissuta a
tutto. Si tocca con mano che la carità di anime umili sviluppa
una fantasia che commuove. Si vede che il Vangelo infonde una vitalità
che nessuna persecuzione riesce a piegare: e quando sembra che tutto
sia spento, sotto la cenere si riaccende la fiamma: “Molti
hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso – scriveva
già san Giovanni Crisostomo – ma hanno ottenuto l’
effetto contrario. Questo nome rifiorì sempre di più
e si sviluppò con progresso crescente” (Om. 4).
12. La domanda, in queste situazioni, è spontanea: da dove
viene tanta sapienza e tanta virtù in terreni che sembrano
incolti e a volte devastati? Non di rado, se ci è dato di
entrare nei cuori, scopriamo che nel fondo dell’anima è
viva la figura dei genitori, del Sacerdote, di una catechista, il
ricordo della processione del paese, una frase sentita un giorno,
una parola del Vangelo, la tenacia di un Papa ammalato e intrepido,
l’ esempio buono di chi nemmeno si accorgeva di essere osservato,
un’immagine sacra che ha attirato l’attenzione e che
è custodita gelosamente, una melodia, una liturgia ben celebrata
che ha incantato l’anima, un momento di solitudine o uno spettacolo
avvincente della natura…Come è possibile elencare tutte
le vie della grazia, che con mano invisibile accarezza le anime
e le dispone al Signore?
Quante volte Dio ci fa incontrare improvvisamente un “fiore”
là dove tutto ci sembrava “deserto”! “Là
mi vedranno”! E’ opera sua per dirci di non cedere mai
allo scoraggiamento, di non pretendere di catalogare ogni cosa,
di vedere i risultati delle nostre fatiche pastorali: tutti e sempre.
Ci chiede di lavorare con grande generosità e impegno, senza
risparmiarci; ma poi di lasciare il raccolto a lui, grati di aver
potuto seminare. Ed egli, nella sua misericordia verso di noi suoi
Ministri, ci fa anche vedere qualche risultato per sostenere il
nostro lavoro e incoraggiare la nostra debolezza. Per ricordarci
che nessun seme buono va perduto: tutto, prima o dopo, riaffiora,
fiorisce e porta frutto: “uno semina e uno miete” (Gv
4,37). Sì, egli ci precede nella Galilea delle anime e lì
ci attende per farsi vedere: per sorriderci, confermare la fiducia
e incoraggiare il nostro impegno: per essere uomini di speranza.
Dobbiamo solo tenere aperti gli occhi lavorando con gioia e dedizione.
13. Questa certezza di fede ci rassicura ma non ci lascia “tranquilli”.
Ben lontani dal cedere all’inerzia spirituale e a pigrizie
pastorali, sapere che il Signore “ci precede” nelle
anime ci stimola a lavorare di più, con rinnovata forza di
convinzione e accresciuto slancio di impegno. L’assicurazione
che nulla del bene compiuto va disperso, perché raccolto
e fecondato dalle mani invisibili dello Spirito, accresce il nostro
entusiasmo e ci dona un supplemento di coraggio, di attenzione,
di energia.
Nel nostro ministero, cari Confratelli, di solito non sono possibili
grandi e organiche programmazioni: anche per questo non è
necessaria una complessa e articolata organizzazione pastorale della
Curia. Ma questo ci richiama fortemente all’essenziale del
nostro apostolato: la vicinanza costante, disponibile, propositiva
alla gente. Sì, come abbiamo detto altre volte, la nostra
è la tipica pastorale “da persona a persona”,
è “pastorale della presenza”: una presenza umile,
vivace, intelligente, cordiale. In una parola, appassionata!
Una presenza che si fa condivisione sacerdotale della gioia e del
dolore. La preparazione che fate ai sacramenti non è forse
un modo concreto per condividere momenti decisivi della vita degli
uomini? Momenti che chiamano in causa la riscoperta della fede,
la verità di se stessi, responsabilità più
grandi; ma anche possono essere occasione di domande, di trepidazioni
e di timori! La famiglia è considerata un grande valore nel
nostro ambiente; ma i problemi esistono. Voi siete testimoni di
preoccupazioni e drammi che vi vedono consiglieri di comprensione,
perdono, riconciliazione. E poi, quanto la vostra presenza è
richiesta e apprezzata quando il dolore bussa alla porta dell’esistenza!
In Italia e all’estero. Tutti siamo esposti e inermi perché
creature: non ci sono responsabilità, gradi, età che
ci rendano immuni davanti al dolore e ai pericoli. La vostra condivisione
discreta, pronta e fedele, entra nei cuori e resta per sempre; è
decisiva perché l’uomo possa vedere il volto di Gesù
Buon Pastore e cogliere la maternità della Chiesa.
L’annuncio pasquale – “Egli vi precede in Galilea.
Là lo vedrete” - ci invita a cercare con fiducia “
le nostre pecorelle” e a conoscerle per nome, come il Buon
Pastore. Siamo incoraggiati a dare la vita per loro: la disponibilità,
l’ascolto paziente, un gesto di paternità sacerdotale,
una parola di speranza perché fatta di Cielo, quel Cielo
che il Risorto ha spalancato e che tutti desiderano anche senza
saperlo.
14. In questo contesto, le piccole cose assumono un’importanza
speciale; a volte – come l’esperienza insegna - possono
essere decisive per un’anima. Quante volte, durante le celebrazioni
liturgiche nelle nostre Comunità, sono rimasto colpito dalla
cura di ogni particolare: dalla tenuta del tabernacolo alla pulizia
della chiesa; dal candore delle tovaglie al decoro dei vasi sacri
e dei paramenti; dalla scelta dei fiori – mai di plastica
salvo in casi particolari come in certe zone dell’estero –
all’uso suggestivo dell’incenso; dal coro dei militari
al buon impiego di appropriati strumenti per il canto e la musica
sacra; dal servizio dei ministranti opportunamente preparati ai
lettori; dalle intonate intenzioni di preghiera alla sempre lodevole
processione offertoriale; dalla cura dell’immagine della Santa
Vergine e dei Santi alle parole di saluto all’inizio della
Celebrazione.
Sempre pensavo come quell’ “insieme”, frutto di
sacrificio vostro e di altri, fosse un grande annuncio di Gesù
Risorto, una catechesi vissuta, un’esperienza che lasciava
il segno indelebile nei partecipanti. Attraverso il linguaggio ricco
della Liturgia, che coinvolge tutti i sensi dell’uomo, l’anima
percepisce l’Invisibile, se ne sente avvolta misteriosamente,
ne resta segnata e nutrita. Tutto diventa segno e annuncio del Signore
e della sua bellezza che consola e salva: gesti e parole, colori
e suoni, profumi e silenzi.
Così, ho potuto spesso constatare l’utilizzo di semplici
strumenti o segni che aiutano la fede: l’edizione tascabile
del Vangelo, sintesi del Catechismo, piccoli testi o pagelline delle
preghiere del cristiano, dell’esame di coscienza, del Rosario,
medaglie della Madonna o dei Santi, crocifissi sia da tenere personalmente
sia da esporre negli ambienti – cosa da diffondere in forma
sempre più ampia -. Sono mezzi concreti ed apprezzati che,
nelle mani di Dio, portano frutto anche grande. Nulla di ciò
che appare “piccolo” e semplice deve essere trascurato
o peggio deriso - né delle cose né delle circostanze
– sapendo che nulla è piccolo di ciò che è
fatto con amore e per il bene delle anime.
Su queste direttrici pastorali vi esorto a continuare con rinnovata
convinzione, fiducia e generosa inventiva.
15. I motivi per venir meno alla fiducia non mancano: i segni più
evidenti del nostro tempo non sono incoraggianti e ci fanno interrogare
a volte sulla incisività dell’annuncio evangelico,
sulla capacità di indirizzare in senso cristiano la cultura
contemporanea. Il secolarismo, con l’appoggio del consumismo,
sembra vincente e devastante sui singoli e sulla società
insidiandone i valori portanti, come la dignità della vita
umana dal concepimento al suo naturale tramonto, la bellezza e la
serietà dell’amore, la santità del matrimonio,
l’unità e la fecondità della famiglia.
Ma la nostra esperienza di Pastori, che hanno l’incomparabile
grazia di accedere nell’intimo delle anime, attesta che il
bene – quello profondo – è immensamente più
grande del male. Parafrasando un noto principio di saggezza popolare,
dobbiamo dire ad alta voce che, se nella foresta gli alberi che
cadono sono molti e fanno rumore, non dobbiamo dimenticare che la
foresta che cresce silenziosamente è sterminata! E’
questa bontà nascosta, silenziosa e diffusa che, insieme
all’amore di Dio, fa crescere l’umanità e scrive
la storia più vera di questo magnifico e drammatico mondo.
Cari Confratelli nel Sacerdozio, accogliete questa Lettera con
benevolenza: l’ affido alla vostra sensibilità di credenti
e di Pastori. Attraverso il filo evangelico dell’incontro
delle donne con il Risorto, avete certamente colto anche il mio
ministero episcopale in questo primo anno tra voi e con voi. Ricordiamo
che il Signore non solo ci accompagna, ma anche ci precede!
Vi saluto con le parole dell’Apostolo Paolo:
“Fratelli, state lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio
a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio
dell’amore e della pace sarà con voi” (2 Cor
13, 11).
Vi benedico con affetto.
Roma 4 ottobre 2004
San Francesco d’Assisi
Patrono d’Italia
Angelo Bagnasco
Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia |