5. Nonostante le non poche luci
del nostro tempo, la modernità non ha mantenuto la promessa
di fondo: costruire un mondo più umano e sereno. Il valore
del progresso e della funzionalità, se assunto a mito, rischia
di ridurre la persona ad una sola dimensione, quella della materialità.
La dimensione etica è spesso soppiantata dalle crescenti
possibilità tecnologiche, per cui tutto ciò che è
possibile tecnicamente è ritenuto legittimo moralmente. Così
il grande dono della ragione, usata solo in chiave strumentale –
in modo utilitaristico - mortifica l’uomo e lo rende incapace
di ascoltare il mistero delle cose, di contemplare la realtà,
di ritrovare l’unità con la natura e i suoi tempi.
Soprattutto, lo ostacola nel riflettere sul senso ultimo di se stesso,
del suo esistere e morire.
Già il grande pensatore italo-tedesco, Romano Guardini, metteva
in guardia da un mondo puramente funzionale: “Non ci sarebbe
posto in esso per il favore del dono, per il fiorire di una cosa
nuova, per la riuscita, che rende felici, di una cosa perfetta,
per il libero aprirsi del cuore” (Libertà, grazia e
destino).
6. Ma l’uomo non può vivere a lungo così: in
un modo o nell’altro, prima o dopo, si pone il perenne problema
ed è costretto a “giudicare se la vita valga o non
valga la pena di essere vissuta” (A.Camus, Il mito di Sisifo,
cap I). Anche se gli impegni della famiglia e del lavoro gli permettono
di realizzare una dimensione significativa e importante, l’uomo
cerca il senso globale dell’esistenza e non solo quello parziale
delle singole azioni. Si tratta, in altre parole, della domanda
antica quanto l’uomo, ma alla quale ognuno deve dare risposta
personalmente: “Per quale scopo sono qui? La mia vita è
utile a qualcuno? Che cosa c’è dopo la morte?”.
Porsi questo interrogativo è indirizzarsi verso il “centro”,
recuperare quella dimensione profonda dello spirito che una cultura
orizzontale e pragmatica vorrebbe mettere tra parentesi. Trovato
il “centro”, o rimesso a fuoco, è possibile costruire
o continuare quell’edificio interiore che costituisce la struttura
portante di ogni persona, la sua consistenza, e che chiamiamo “vita
spirituale”.
7. Il fenomeno diffuso dell’occultismo e della superstizione,
la suggestione delle filosofie orientali, la ricerca di spiritualità
esoteriche, le diverse forme di New Age, sono segni, certamente
distorti, dell’ intuizione che l’uomo non è riducibile
ad una somma di bisogni fisici o di istanze psicologiche e affettive.
Al fondo di certe tendenze, seppure inaccettabili, scorre la sensazione
che la vita non è una pura sequenza di giorni e di anni fino
al definitivo tramonto.
In ogni tempo e luogo, le culture attestano che l’uomo ha
una percezione di sé decisamente più completa e alta:
si percepisce come uno spirito immortale in unità profonda
con la propria corporeità e in vitale rapporto con Dio: “Facciamo
l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26).
Quanto più si avvicina al centro interiore dell’anima,
tanto più diventa cosciente che il suo “centro”
radicale e fondativo è fuori di sé: è Dio.
E comprende che Dio gli chiede di aprirgli l’intima dimora
dello spirito per incontrarlo nel vincolo dell’amore che crea
e che salva.
Significativa è la testimonianza di uno storico greco del
primo secolo dopo Cristo: “Se tu andassi in giro per il mondo,
potresti trovare città prive di mura, che ignorano la scrittura,
non hanno re, case, ricchezze, non fanno uso di monete, non conoscono
teatri e palestre; ma nessuno vedrà, né vedrà
mai, una città senza templi e senza divinità”
(Plutarco, Contro Colote, 31).
8. Anche gli impegni e le preoccupazioni che riempiono le nostre
giornate sono una sfida da prendere in debita considerazione: il
rischio è quello di rincorrere le cose da fare, tanto da
esserne presi e da rimanere alla superficie degli avvenimenti, dei
rapporti con gli altri, di noi stessi…senza cogliere la dimensione
più intima, l’anima. Esiste per tutti il pericolo di
una specie di atrofia dello spirito.
Occorre tirarsi “fuori”, o meglio entrare in noi stessi,
affacciarsi a quella realtà più profonda di noi che
rischia di essere poco guardata, presi da mille cose immediate.
Ma le cose più urgenti non sono sempre le più importanti.
Si tratta di accogliere l’antica e attualissima esortazione
di sant’Agostino: “Non uscire da te; rientra in te;
nell’uomo interiore abita la verità”. La sua
esperienza potrebbe essere anche nostra: “Tardi ti ho amato,
bellezza antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu
stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io,
brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed
io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che,
se non esistessero in te, neppure avrebbero esistenza” (Confessioni,
libro 10, 27).
9. C’è una condizione indispensabile per arrivare al
“centro”: il silenzio. Oggi sembra si abbia paura del
silenzio, forse perché fa sentire di essere soli, perché
mette di fronte a se stessi. A volte la compagnia di sé spaventa:
meglio il rumore assordante che distoglie da questo difficile confronto;
meglio la compagnia chiassosa che illude di essere “insieme”
mentre si è solo “accanto”.
La via per entrare in noi stessi, nel nostro cuore, è il
silenzio e quindi la buona solitudine. Il Signore Gesù, nella
sua missione terrena, non aveva neppure il tempo per mangiare, ma
non esitava di lasciare le folle per ritirarsi in un luogo solitario
e colmo di silenzio: “Congedata la folla, salì sul
monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora
solo lassù” (Matteo 14, 23).
Ascoltiamo ancora il Guardini: “C’è in te un
silenzio che si ascolta con l’anima. In questo silenzio l’ospite
riposa, l’anima si risana” ( Lettere sull’ autoformazione).
E’ questo il “silenzio buono” che ognuno deve
cercare per fermare la corsa interiore e tornare sulle cose, per
coglierne il significato e il valore, per rapportarle al fine per
cui viviamo, perché da semplice cronaca diventino esperienza,
anzi saggezza.
Esiste, per contro, un silenzio che possiamo definire “cattivo”,
perché non è il luogo della verità ma segno
di distanza e di distacco, spesso di risentimento. Il silenzio,
quello abitato dalla ricerca e dal gusto della verità, non
è mutismo. E’ il silenzio dei santi e dei profeti che
entrano nella cella segreta dell’anima e incontrano se stessi
nel mistero di Dio, fanno ordine nei sentimenti, riconoscono i propri
errori. Qui gli accadimenti trovano la loro misura, il dolore diventa
maestro di vita, le gioie si distinguono tra vere e false, le aspirazioni
si rivelano ragionevoli oppure sproporzionate, le gioie si manifestano
come doni e segnali verso la Meta. In una parola, nel silenzio pensoso
l’anima riconosce se stessa, ordina la vita, si scopre importante
per Dio, ne percepisce il richiamo. Suonano come un programma le
parole di Giovanni Paolo II: “per poter comprendere e valutare
nel modo giusto, dobbiamo creare oasi di silenzio, di interiorità
e di preghiera”.
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